Sai in quali orari si cerca maggiormente uno psicologo?
Tra le 23 e le 24, nelle ore notturne, proprio quando calano le energie e le forze impiegate durante il giorno per sopportare, trattenere o distrarsi. Allora emerge la sofferenza, la difficoltà e la sensazione di non riuscire ad andare avanti così. Magari si pensa: “basta, devo fare qualcosa, ho bisogno d’aiuto! Così non posso andare avanti!”. A quel punto magari si va su Google e finalmente si cerca uno psicologo.
E sai come immagino va a finire nel 99% dei casi?
Che una volta andati su Google, trovato il contatto di uno psicologo, ci si interrompe. Magari si è lì, con il forte desiderio di scrivere, di chiedere aiuto, ma anche con la paura nel farlo. Purtroppo solo una strettissima minoranza di persone riesce a trovare la forza e il coraggio di scrivere ed agire. Così, il giorno dopo, per i più si ricomincia daccapo, con la solita routine, il solito desiderio e la speranza e la fatica di provare a farcela da soli. Ancora una volta. Sempre la stessa storia. Nella stragrande maggioranza dei casi, si continua a soffrire con il solito copione. Nulla cambia. Tutto si ripete. E magari ci si ritrova ancora un altro giorno, di notte, a cercare uno psicologo per poi fermarsi ancora, immobili, paralizzati, impauriti di fronte al pensiero di contattarlo davvero.
Alcuni pazienti infatti, al primo colloquio, mi hanno riferito che, da quando gli era stato dato il mio contatto o mi avevano trovato, tutti i giorni avevano pensato che avrebbero dovuto chiamarmi, ma poi non ce la facevano. C’è chi mi ha confessato di aver avuto paura di guardarsi dentro, chi di incontrare i propri mostri, chi di scoprirsi colpevole o malvagio, chi inadeguato, chi di essere giudicato, chi di ritrovarsi sezionato come in una sala operatoria per poter trovare cosa ci fosse di sbagliato in lui, chi di aver avuto paura di mostrarsi vulnerabile, umano. Ognuno aveva i suoi validi motivi.
Non mi contattavano perché, in fondo, provavano tutti la stessa cosa: paura di soffrire.
È proprio così che ci si può condannare alla sofferenza: continuando a soffrire per paura di soffrire.
L’evitamento infatti è ad esempio il tratto caratteristico di chi ha vissuto un trauma, cioè un evento doloroso e intenso, o magari anche una piccola dinamica spiacevole ma ripetuta innumerevoli volte nel tempo. Il problema è che più si evita di affrontare tali vissuti o dinamiche e più aumenta il disagio, la paura e il senso di impotenza sperimentati. È proprio per questo motivo che, per alcuni miei pazienti, sono passati mesi e mesi prima di contattarmi e fare quel passo coraggioso di venire in studio. E io li capisco. Queste dinamiche di evitamento gli sono servite in qualche periodo della loro vita per sopravvivere, per farcela, per tirare avanti. Queste dinamiche che sono state una volta soluzione, purtroppo col tempo sono diventate anche limite e vincolo.
Ci sono altre persone invece (pochissime per la verità) che, fatta la ricerca su Google, riescono anche a fare quel primo passo: mi contattano, prendono appuntamento e poi, arrivato il giorno dell’incontro ricevo un messaggio in cui mi dicono che sono costretti a disdire a causa magari di “un improvviso impegno lavorativo”. E così spariscono. Tornano alla loro vita senza contattarmi mai più. So che quando ci sono queste disdette ancor prima di iniziare, quasi mai si tratta davvero di un impegno di lavoro, ma di un travaglio interno, di una lotta tra il “vado/non vado”, il “devo farcela/ho paura, non me la sento”. E io resto testimone, al mio posto. Rispetto i tempi e le scelte di ognuno, con la speranza che queste persone trovino il coraggio di fare un passo che sia buono per loro: chiedere aiuto a qualcuno che sia davvero in grado di aiutarle. Che poi questo qualcuno sia io o qualche altro professionista, non importa, purché la loro vita possa migliorare. Spero solo che non si accontentino dell’amico al bar, senza nulla togliere a quest’ultimo e alle sue benevoli intenzioni ma conosco sulla mia pelle, oltre che nella teoria, quanto è delicata e quante competenze richiede una relazione che possa essere benefica e terapeutica.
Sono ben consapevole che non è facile intraprendere un percorso psicologico, ma penso anche a quanto deve essere difficile e doloroso non intraprenderlo affatto quando si soffre, quando ad esempio si continua ad andare avanti avendo la sensazione di non vivere o di non riuscire a farlo, di non sentirsi liberi magari perché i propri mostri interiori prendono il sopravvento. So quanto deve essere difficile sentirsi prigionieri di se stessi, delle proprie reazioni, dei propri comportamenti indesiderati, o quanto è doloroso sentirsi soli e non riuscire a connettersi agli altri nonostante ci si circondi di molte persone, o quando alcune emozioni prendono il sopravvento e non si sa come fare, cosa fare. So quanto è difficile vivere quando si è confusi da tempo e non si sa che decisione prendere e magari si resta lì, fermi, ad aspettare che qualcosa cambi. So quanto è doloroso e quanta vergogna può generare lo scoprirsi a ripetere sempre gli stessi errori o il trovarsi invischiati sempre nelle stesse relazioni tossiche e sentirsi vittima. So quanto è difficile sopportare la sensazione di non essere adatti a questa vita, o di essere sbagliati, o quanto è difficile avere difficoltà di cui ci si vergogna illudendosi di essere i soli al mondo ad avercele quando la realtà è ben diversa, ma purtroppo non è facile rendersene conto a causa della società narcisistica in cui viviamo nel nostro tempo.
Per fortuna c’è anche chi ce la fa e, nonostante le sue paure e difficoltà, con molto coraggio mi contatta, viene in studio e inizia il suo viaggio, il suo percorso. Magari è solo consapevole di soffrire e di non essere soddisfatto della propria vita, ma non sa neanche da dove iniziare, cosa dirmi. È normale. Assolutamente normale. È infatti compito mio aiutarlo a comprendersi e a fare i primi nuovi passi di questo nuovo viaggio. Un viaggio fatto di emozioni, consapevolezze, commozioni, dolori ma anche gioie, soddisfazioni.
Un percorso è un pezzetto di strada che si fa insieme
“Come sarebbe stata la mia vita oggi se avessi chiesto aiuto prima?”
A volte, quando ci si avvicina alla fase finale del percorso, ad alcune persone, più di una volta, è successo che sia emersa la tristezza. Tristezza di sentire quanto tempo hanno sprecato nella loro vita nel cercare di farcela da soli mentre, nel frattempo, facevano scelte rivelatesi poi errate o vivevano limiti dettati dalle proprie difficoltà, con tutte le conseguenze dolorose che tutto questo comportava. In quei momenti, insieme alla tristezza che a quel punto riescono a sentire e ad accogliere, grazie alla nuova forza e la solidità sviluppate, vi è anche un moto benevolo di compassione verso se stesse, un moto di affetto: si commuovono di fronte al pensiero di come sarebbe potuta essere la loro vita se solo avessero chiesto aiuto prima, se mi avessero contattato prima e augurano a se stesse, nel futuro, di aprirsi ad accogliere le mani tese dal prossimo. E in quei momenti io, insieme a una sottile emozione di delicata gioia dovuta al loro riconoscimento di quanto per loro sia stato prezioso il percorso fatto insieme, quello che provo maggiormente è tristezza e tenerezza. Mi si stringe il cuore quando emergono in loro vari tipi di rimpianti o rimorsi importanti, come ad esempio la sensazione che magari non avrebbero perso la persona che amavano, o che avrebbero potuto avere il coraggio di seguire le proprie passioni sul piano professionale senza perdere anni, o che avrebbero potuto gestire diversamente le pressioni senza dover lasciare un lavoro che in fondo amavano e che le gratificava anche economicamente.
Il passato purtroppo non può essere più cambiato. Per questo è molto triste non poter fare più nulla in tal senso. A quel punto, l’unica cosa possibile è poter accogliere quel dolore, quel “lutto”, perdonarsi, comprendersi e poter così guardare avanti per affrontare la vita che ancora rimane con più consapevolezza, capacità e coraggio, facendo tesoro delle esperienze avute.
“Come sarebbe stata la mia vita se avessi chiesto aiuto prima?”
Questa domanda ogni volta che la sento, mi tocca profondamente e credo che continuerà sempre a toccarmi. E voglio anche che sia così.
Mi piacerebbe che mai nessuno debba pronunciarla ancora, anche se so che non sarà così. Per questo, se anche a te capita che alla sera, quando è buio fuori, di trovarti a navigare su Google alla ricerca di uno psicologo non riuscendo però poi a trovare il coraggio di agire, allora ti auguro di cuore di trovarlo quel coraggio, di trovare un professionista e scrivere, prendere appuntamento e andare in studio.
Chiedere aiuto non è segno di debolezza. Serve grande forza e coraggio per farlo, la forza di tollerare la propria debolezza e il coraggio di affrontare le proprie paure.
Poi, una volta in studio, un passo difficilissimo è già fatto.
Il resto dei passi, non li farai più da solo, ma insieme a chi sarà lì con te ad accompagnarti.